La bella e la bestia

La bella e la bestia (Leprince De Beaumont)

C’era una volta una città che non assomigliava alle altre. Le sue case erano ornate di terrazze e di torri che parevano cresciute senza un ordine prestabilito.

Molte avevano fregi in marmo, portoni scolpiti, finestre graziose che si aprivano su muri di umili mattoni e sembravano il segno di una ricchezza improvvisa.

Infatti in quella città il popolo ogni tanto arricchiva improvvisamente. Era un popolo composto quasi esclusivamente di mercanti, che commerciavano attivamente con i paesi d’oltremare.

Dai porti vicini partivano navi cariche di mercanzie di ogni genere e allora tutti, le donne specialmente, si accalcavano nella piazza a salutare i marinai, i mariti, i fratelli, i figli che se ne andavano tanto lontano.

Poi incominciava la lunga attesa da parte delle donne che passavano il tempo filanda, tessendo, ricamando, e preparando ai loro cari un lieto ritorno.

E quando le navi gettavano l’ancora nei porti, e i volti allegri dei marinai e dei mercanti annunciavano che tanto il viaggio quando gli affari erano andati a gonfie vele, vecchi, donne e ragazzini si avviavano festosamente incontro ai naviganti, cantando cori, intrecciavano danze, e la gioia era generale.

Poi ogni famiglia cercava, con i guadagni fatti, di onorare e abbellire la propria casa, innalzando piccole torri merlate, aprendo terrazze, sostituendo gli umili portoni di legno con altri graziosamente scolpiti, affinché di quella ricchezza potessero godere i figli e anche i figli dei figli.

Il mercante più ricco e più rispettato era un vecchio gentiluomo vedovo, padre di tre figli e di tre figlie. I figli maschi si erano dedicati al commercio, e avevano dimostrato di possedere intelligenza, iniziativa e onestà; le tre figlie erano bellissime, e le due maggiori erano molto vanitose.

Queste due ragazze, istruite da ottimi maestri, avevano imparato a cantare, a danzare, a inchinarsi con grazia, a sostenere spiritosamente una conversazione; avevano buon gusto nello scegliere abiti e gioielli, ma tutti i loro meriti finivano lì.

La più giovane, invece, sebbene più bella ancora delle sorelle, non soltanto danzava e cantava come le altre e sapeva conversare meglio di loro, ma sonava il clavicembalo, ricamava alla perfezione, aveva letto centinaia di libri arricchendo la mente di infinite cognizioni, e spesso non disdegnava di scendere in cucina per imparare dalla cuoca a cucinare saporiti manicaretti.

Nei momenti di libertà, poi, si dedicava a opere buone, visitando ammalati e tenendo compagnia ai bambini e ai vecchi rimasti soli mentre gli uomini erano sul mare.

Quando era piccola, tutti l’avevano soprannominata ” La bella bambina “, per i suoi occhi luminosi, i riccioli bruni e il dolce sorriso; e quando crebbe la chiamarono semplicemente “La Bella”.

Le due sorelle maggiori non ascoltavano volentieri quell’ appellativo rivolto alla più giovane, e quando lo udivano diventavano rosse per la stizza. Avrebbero dato chissà che cosa perché quella parola fosse dedicata a loro, e cercavano di guadagnarsela affettando arie aristocratiche e agghindandosi come meglio potevano.

Avevano le stanze sempre piene di vestiti e di tagli di stoffa; il gioielliere lavorava per loro di continuo, ed esse frequentavano esclusivamente i balli dell’alta società e le serate di gala a teatro.

Bella, invece, partecipava a queste riunioni e danzava graziosamente assieme agli altri, mettendo le sue bianche manine in quelle callose degli operai durante il girotondo.

Perciò tutti le volevano bene e molti giovani avrebbero voluto sposarla, ma bella rifiutava con garbo, ringraziando e dicendo che si sentiva troppo giovane per maritarsi, tanto più che desiderava rimanere per qualche anno ancora con il suo babbo.

Anche le sorelle maggiori erano attorniate da pretendenti essendo belle e ricche; ma li rifiutavano con fare arrogante.

– Non potremo mai abbassarci a sposare mercanti come voi – dicevano – e ci fa meraviglia, anzi, che abbiate osato tanto. Sposeremo solamente un duca, o almeno un conte.

Volgevano altezzosamente le spalle e andavano a provare davanti allo specchio gli inchini cerimoniosi che avrebbero fatto quando il duca, o il conte, fossero arrivati.

Ma una sera arrivò, invece, una lettera che il mercante lesse attorniato dai suoi figli.

Desideroso di arricchire sempre di più, per lasciare una buona dote alle figlie e un discreto patrimonio ai figli, egli aveva investito tutte la sue ricchezze nell’acquisto di merci rare e preziose che i marinai della sua flotta dovevano procurargli in paesi molto lontani.

La flotta doveva arrivare in porto già da tempo, ma ancora non se ne aveva notizia, e il mercante aspettava con ansia di vederla da un giorno all’altro o di ricevere qualche messaggio.

E il messaggio finalmente arrivò; ma era di un capitano suo amico, il quale gli diceva che la flotta era scomparsa e che nessuno l’aveva vista più, sul mare. Ormai era inutile aspettarla ancora, perché era passato troppo tempo da quando avevano levato le ancore. Il mercante lesse fino in fondo, poi guardò i suoi figlioli, angosciato.

Aveva impegnato fino all’ultimo centesimo in quell’impresa, e la scomparsa della flotta significava per lui anche la scomparsa di tutti i suoi beni. Non gli rimaneva più nulla.

Avrebbe venduto il palazzo e tutte le suppellettili per pagare i dediti contratti per armare la flotta; i figli dovevano abbandonare il mestiere di mercante, che richiede tanto denaro, almeno per cominciare; e le figlie avrebbero dovuto rinunciare agli abiti lussuosi e ai gioielli preziosi per vestirsi come le donne del popolo.

Tutti, poi, si sarebbero ritirati in campagna per godere dell’ultimo bene rimasto, che però avrebbe consentito a tutti di sfamarsi: una modesta fattoria circondata da un po’ di terra da coltivare.

– Vi chiedo perdono, figli miei – disse il mercante con le lacrime a gli occhi.  -Questa è l’unica risorsa che posso offrirvi. In campagna riusciremo a vivere, perché abbiamo buone braccia per lavorare la terra. Le ragazze si occuperanno dell’orto e del pollaio, e, quando occorre, anche della stalla e del porcile. Inoltre faremo economia, perché per lavorare nei campi non occorrono abiti di lusso.

– Va bene, babbo – risposero i figli.

Dispiaceva loro moltissimo abbandonare la mercatura in cui già avevano incominciato ad aprirsi una buona strada; ma erano uomini e si rendevano conto delle cose.

Il pane onestamente guadagnato è sempre buono, pensavano, anche se guadagnato con la zappa. Bella accarezzò dolcemente la mano di suo padre e lo guardò con un coraggioso sorriso.

La campagna, infine, significava verde, fiori, uccellini, aria buona, buona salute. Ma le sorelle, udendo nominare stalla e pollaio, proruppero in acuti strilli:

– Mai, mai, verremo con te in quella catapecchia fuori dal mondo – gridarono. – Vuoi condurci là per farci dispetto, ma noi non acconsentiremo. Fosse almeno una villa con fontane e statue!

Ma è una rozza casaccia dove bisogna portare gli zoccoli, indossare un brutto grembiule e, per di più, zappare la terra! Rimarremo qui, in città, dove abbiamo sempre vissuto.

– Figlie mie, – esortò il padre – vi prego di ragionare. Non potrete più abitare in questo palazzo che sarà venduto; e dovrò vendere anche vestiti e gioielli. Siamo diventati poveri, e non ci rimane che quella casa. Non vi resta altro che rassegnarvi a questa nuova condizione!

– Ebbene, non importa – affermò la figlia maggiore piangendo di stizza e aggiunse:

– Rimarremo in città a ogni costo. A costo persino di sposare qualcuno dei nostri pretendenti più ricchi.
– Si, si faremo così! – rincarò la seconda. – Ma in campagna mai, per nessuna ragione al mondo!

E invece furono costrette a partire anch’esse per la campagna, perché i ricchi pretendenti si erano tutti dileguati e non volevano più saperne di loro, ora che non portavano in dote che il loro cattivo carattere.

Tuttavia molti giovani fecero sapere a Bella che sarebbero stati felici di sposarla anche se povera, perché le sue qualità valevano più di una ricchezza; ma Bella col suo garbo consueto fece sapere che non avrebbe mai abbandonato suo padre in un momento tanto triste, e che si disponeva a partire anche lei.

Partiva con coraggio, pronta ad affrontare la nuova vita. Quando arrivò in campagna Bella spalancò tutte le finestre affinché la casa si riempisse di sole, di profumi e di gorgheggi di uccellini, e apparisse meno triste alle due sorelle che si erano gettate gemendo sui loro letti di ferro. Ma le due ragazze non si commossero, e rimasero a piangere fino all’ora di cena, quando scesero a mangiare i semplici e buoni cibi che Bella aveva preparato con i prodotti dell’orto e del frutteto. Per fortuna sapeva cucinare, e da quel giorno fu compito suo badare ai fornelli, alla stalla, all’orto al pollaio. Ella lavorava allegramente cantando e non sembrava neppure avvertire la fatica.

Le sorelle, invece, che erano molto pigre, preferivano stare a letto fino a mattino avanzato; più tardi scendevano a far colazione e poi passeggiavano malinconicamente nel giardinetto e non facevano che rimpiangere il tempo passato.

Bella si alzava all’alba, riordinava la casa, innaffiava l’orto, curava le galline, i porcellini, i vitellini, lavava i panni al ruscello, e soltanto nei momenti di libertà sonava il cembalo o leggeva qualche libro.

Poi, quando il padre e i fratelli ritornavano stanchi dai campi, ella aveva già preparato una buona cena in una cucina accogliente e pulita, ornata di stampi di rame scintillante; e pian piano la forza d’animo di Bella e la sua serenità infusero coraggio a tutta la famiglia, fuorché alle due sorelle maggiori, occupate a rimuginare di continuo la loro amarezza.

Una sera giunse un secondo messaggio. Tutta la famiglia allora, si riunì accanto alla lucerna, e una viva ansia era dipinta sui volti dei suoi componenti. Il messaggio annunciava che proprio quella mattina una nave del mercante, carica di mercanzie, era finalmente giunta in porto.

Quella notizia le sorelle non seppero trattenere l’entusiasmo.

– Evviva! Siamo ridiventati ricchi! – esclamò la maggiore. – Finalmente potremo tornare di nuovo in città!
– Bisogna pensare subito ai vestiti! – rincarò la seconda. – Non mi sono rimasti che stracci, da mettermi addosso.

– Calma, calma, figlie mie! – esortò il mercante. – Una nave è soltanto una nave, e non può rappresentare la ricchezza passata. Inoltre dovrò pagare i marinai, e mi è rimasto anche qualche debito. Aspettate il mio ritorno e vedremo.

– Parli così per farci dispetto, come al solito – rimbecco la maggiore con acrimonia. – Al tuo ritorno portami un abito di velluto azzurro guarnito di merletti d’argento.

– E a me un paio di scarpine di raso – rincarò la seconda. – Ho bisogno anche di un ventaglio d’avorio, di orecchini di brillanti, di collane di smeraldo, di braccialetti, di un diadema … e dieci braccia di seta della Cina per confezionarmi un po’ di biancheria … e un paio di guanti lunghi fino al gomito.

Le due ragazze continuarono per un pezzo e il mercante le ascoltava sconsolato. Anche se non avesse avuto debiti da pagare, il carico della nave sarebbe bastato appena a comperare la metà di ciò che le ragazze domandavano. Poi si volse dolcemente a Bella.

– E tu non domandi niente, figlia mia? – le chiese sollecito.

Bella ci pensò. Non desiderava proprio niente, e si sentiva felice così com’era; tuttavia un piccolo regalo le avrebbe fatto piacere, perciò disse:

– Vorrei un ramoscello di rose: nell’orto non ce ne sono, ma io potrei piantarlo, e forse attecchirebbe.

Il mercante sorrise, poi andò subito a letto per alzarsi per tempo l’indomani. Infatti all’alba i figli sellarono il cavallo ed egli partì.

Era pieno di speranze, ma giunto in città seppe che la nave era arrivata, ma egli purtroppo non avrebbe potuto godere nemmeno una briciola di quelle ricchezze, perché i marinai aspettavano la paga da molti mesi e la nave, sconquassata da un fortunale, doveva essere riparata da cima a fondo; inoltre si erano già presentati parecchi creditori a reclamare il loro avere.

Quando ebbe finito di pagare tutti, il pover’uomo si trovò senza nemmeno un soldo in tasca. Allora si affrettò verso casa, desideroso di riabbracciare i suoi figlioli.

Ormai si era affezionato alla campagna, e quasi gli dispiaceva di quello spiraglio di ricchezza inattesa che si era aperto nella sua vita, per procurargli nuove delusioni; era felice soltanto in mezzo ai campi, quando sentiva i suoi figli cantare vicino a sé, anche se lo affliggeva la disperazione palese delle due maggiori che non sapevano rassegnarsi a quella nuova vita.

Spronò il cavallo, e verso sera giunse nei paraggi di casa sua, ma doveva prima attraversare un bosco, sotto la cui cupola di foglie faceva tanto buio che egli si smarrì.

Era molto freddo. La neve cadeva di traverso spinta dalla bufera, e a poco a poco i rami si coprivano di bianco, mentre gli uccellini svolazzavano affamati e impauriti proprio come lui.

Aveva paura, perché sentiva i lupi ululare e il vento era così furioso che lo fece cadere di sella due volte, ma mentre, sfinito, stava per abbandonarsi allo scoraggiamento, vide brillare un lumicino fra gli alberi. Rincuorato, spinse il cavallo in quella direzione, e poco dopo giunse con grande sorpresa davanti a un palazzo stupendo.

– Mio dio, ti ringrazio! – esclamò. – Mai ho veduto un palazzo così bello. Chiederò ospitalità, e passerò la notte al riparo.

Il palazzo aveva scalinate di marno e ampi cortili, ma il mercante non riuscì a vedere né servi, né sentinelle. Stupito, avanzò un po’ timidamente, e superato un portone di legno intarsiato, si trovò in un vasto salone pieno di mobili ricchi e preziosi.

Al di là c’era una terrazza di marno bianco che digradava verso un meraviglioso giardino pieno dei fiori di un’eterna primavera. Prati di un verde smeraldino, ruscelli d’argento, piante fiorite, cespugli di rose, fiancheggiavano un maestoso viale formato da alberi centenari. Il mercante incominciò a percorrere il viale come trasognato, ma, guardando le rose, si ricordò di Bella.

La sua diletta figliola gli aveva chiesto un ramoscello di rose: e qui, di rose ce n’erano tante! Stacco con cura un rametto ornato di boccioli, ma in quell’istante udì un grido spaventoso, i cespugli si aprirono e davanti a lui apparve un essere mostruoso, che aveva un po’ dell’uomo e un po’ dell’animale e lo fissava con occhi fiammeggianti.

– Ingrato! – gridò. -io ti ho salvato la vita, e tu, per ricompensa, mi rubi le rose, i fiori che più mi sono cari al mondo. Meriteresti un castigo. Raccomanda l’anima a Dio perché tra poco morirai.

Il mercante si gettò in ginocchio terrorizzato:

– Perdonatemi, signore … anche una mia figliola ama tanto le rose che me ne ha chiesta una, e io non sapevo dove trovarla. Perciò …

Incominciò a balbettare, non riuscendo a trovare una giustificazione, ma il mostro continuò con voce terribile e cavernosa:

– Non chiamarmi signore. Guardami: ti sembro forse un signore? Io sono soltanto una Bestia, e il mio nome è proprio la Bestia; ti farò grazia della vita soltanto a un patto: che tua figlia venga qui, e si sacrifichi al tuo posto. Ma se non verrà, dovrai ritornare tu, fra tre mesi.

Il mercante non pensò neppure per un attimo di mandare la figliola a morire in vece sua, ma si sentì un po’ consolato, perché la Bestia gli lasciava il tempo di riabbracciare i suoi figlioli.

– Vi ringrazio – disse con fervore. – Fra tre mesi sarò qui.

La Bestia lo guardò per un momento, poi disse con voce un po’ rabbonita:

– Non voglio che tu torni a casa a mani vuote. Nella sala in cui sei entrato troverai un grande cofano. Mettici dentro ciò che vuoi. Penserò io a mandarlo.

Detto questo la Bestia si ritirò e il mercante rimase solo. Ritornò malinconicamente nella grande sala e vide davvero il cofano, che non c’era prima, e, intorno, mucchi di monete e di gioielli.

Quasi meccanicamente li raccolse e riempì il cofano, pensando che non avrebbe mai goduto di quelle ricchezze, ma che almeno ne avrebbero goduto i suoi figlioli; e questo pensiero lo confortò.

Andò a prendere il cavallo e salì in sella pensando alla sorte che lo aspettava, dopo i tre mesi. Il cavallo trovò da solo la via di casa, e il suo nitrito, quando giunse, fece accorrere fuori i figlioli. Essi lo aiutarono a scendere di sella e Bella accese il fuoco nel cammino, mentre le figlie maggiori accorrevano per ritirare i loro vestiti.

Vedendoli tutti riuniti intorno a sé, il mercante incominciò a piangere, porse il ramoscello a Bella e disse:

– Eccoti le rose che desideravi. Costeranno ben care al tuo povero padre.

A quelle parole i figli lo tempestarono di domande, e finalmente lo sventurato si decise a raccontare ogni cosa. Le figlie maggiori si scagliarono con violenza contro Bella.

– E’ colpa tua, se rimarremo orfane! Hai voluto fare la santarellina, chiedendo una cosa piccola piccola, e non un vestito o un gioiello come noi! Eccone le conseguenze! E non ti disperi! Non piangi nemmeno, tu che sei la causa della rovina di nostro padre!

– Perché dovrei piangere? – chiese Bella con calma. – Dato che la Bestia si accontenta di me, andrò io al castello, naturalmente.

In cuor suo era spaventassimo: si sentiva come un uccellino inseguito da un gufo. Ma pensava che era giusto che fosse così. Lei aveva chiesto quel dono assurdo; lei doveva pagare. E la gioia di sapere il buon babbo vivo, l’avrebbe consolata da ogni male.

– No, sorellina cara, no! – gridarono i fratelli. – Noi non permetteremo mai che tu corra incontro alla morte, e troveremo il modo di uccidere la Bestia.

– Voi non correrete rischi per colpa mia – replicò Bella. – Non saprei sopravvivere, se vi capitasse una disgrazia.

– Quella Bestia è invincibile – singhiozzo il padre. – Non v’è altro rimedio se non la mia partenza, fra tre mesi. Io sono vecchio: ormai mi rimane così poco tempo da vivere che non vale la pena di rimpiangerlo.

– No, caro babbo – disse ancora Bella con la solita fermezza. – Io sono giovane, ma non amo la vita a tal punto da lasciarti morire al posto mio. Senza contare che, perduto te, morirei di dolore anche perché mi sentirei colpevole della tua morte.

Continuarono a lungo a discutere, e finalmente il mercante si rassegnò a partire per il castello assieme a Bella. Poi, strada facendo, avrebbero deciso il da farsi. Udito questo, le sorelle nascosero a stento la loro gioia. Finalmente sarebbe sparita Bella, colei che le aveva fatte sempre sfigurare! Senza quel confronto, sarebbero apparse meno scioccherelle e vane!

Andarono a letto soddisfatte, e il padre, quando entrò in camera sua, ebbe una sorpresa: accanto al letto c’era il cofano pieno di monete e di gioielli. Era la ricchezza di nuovo! Ma che cosa poteva importare ormai!

Bella, avvertita, pregò il padre di adoperare quel denaro per fare la dote alle sorelle, affinché potessero sposare due giovani gentiluomini che le avrebbero chieste in moglie, se non fossero state così povere. Quindi andò a letto anche lei e sognò una bellissima signora, con l’abito azzurro tempestato di stelle, che le diceva:

– La tua bontà e il tuo coraggio meritano un premio. Spera sempre e vedrai che le tue sofferenze avranno fine.

Quel sogno confortò un poco Bella e suo padre, che tuttavia piansero amaramente quando dovettero lasciare la loro casa e inoltrarsi nel fitto del bosco dove, in lontananza, brillava tenue il lumicino …
Il castello era sfarzosamente illuminato, come se aspettasse l’arrivo di un ospite di riguardo, ma nei cortili e nel salone non c’era anima viva. Il cavallo entrò da solo nella scuderia, e Bella e suo padre trovarono, in una sala, una tavola imbandita con cibi prelibati, e un bel fuoco nel camino. “

La Bestia vuole ingrassarmi, prima di mangiarmi ” pensò la ragazza; ma nascose il suo terrore ed esortò il padre a prendere un po’ di cibo. Anzi, anche lei simulò di mangiare con buon appetito. Avevano appena terminato che udirono un gran rumore nelle stanze interne e la Bestia entrò.

Sebbene preparata, Bella sentì un tuffo al cuore. Quell’essere era veramente orribile, anche se parlava con voce pacata e cortese. Egli guardò Bella a lungo, poi domandò:

– Sei venuta di tua spontanea volontà, oppure ti hanno obbligata?

– Sono io che ho voluto venire! – affermò Bella. – Ho procurato tanti guai a mio padre chiedendogli una rosa, ed è giusto che sia io a pagare.

– Sei onesta e generosa – commentò il mostro, e rivolgendosi al mercante aggiunse:

– Tu puoi andartene domattina: addio.

Poi si ritirò, e i due, rimasti soli, cercarono di farsi coraggio a vicenda.

– La Bestia non è cattiva: vedi che non mi ha mangiata? – disse Bella; ma in cuor suo pensò che forse l’avrebbe fatto la sera dopo.

Tuttavia, poiché si era fatto tardi, andarono a letto in due eleganti camere, e contrariamente alla loro aspettativa si addormentarono subito. Al mattino venne il momento di separarsi.

Padre e figlia si abbracciarono piansero, quindi il mercante si allontanò e Bella rimase a guardarlo fin che fu scomparso. Rientrata nel castello ebbe un momento di disperazione, ma cercò di rinfrancarsi pensando: ” Ho soltanto un giorno di vita, perché questa sera il mostro mi mangerà.

Voglio godere visitando questo bel castello e questo bel giardino”. Il giardino era veramente uno splendore, pieno di rose dal profumo che stordiva, e il castello traboccava di cose magnifiche e preziose.

Bella non si stancava di ammirare, ma si fermò sbigottita davanti a una porta su cui era scritto ” Appartamento di Bella “. Aperse la porta ed entrò; vide sale e salotti arredati con ogni ricchezza e comodità.

” Non capisco il perché di tante premure, dato che tra poco la Bestia mi mangerà” pensò; ma subito si distrasse vedendo un clavicembalo e una biblioteca piena di libri. I libri erano sempre stati i suoi migliori amici, e corse a prenderli e a sfogliarli. Sul frontespizio del primo c’era scritto: desidera e comanda, qui tu sei la regina.

“Sarebbe troppo bello!” pensò incredula la ragazza e disse in cuor suo. ” Desidero vedere mio padre!”. Subito un largo specchio appeso al muro si appannò lievemente, poi si schiarì, e Bella vide delinearsi nel cristallo la cucina di casa sua.

C’erano le sorelle che chiacchieravano allegramente, come se il pensiero di lei e del padre non le sfiorasse nemmeno. Poi ecco sopraggiungere il padre, disfatto dal dolore; sedette tristemente presso il camino, mentre le ragazze lo abbracciavano simulando le lacrime. Quindi l’immagine svanì. Bella si sentì piena di tristezza; tuttavia mandò un pensiero riconoscente al mostro che aveva avuto per lei tanta cortesia.

Più tardi tornò nella sala da pranzo e vide la tavola nuovamente imbandita. Era la prima volta che pranzava sola, ma non soffrì di malinconia, perché una musica invisibile le fece compagnia per tutto il tempo.

” La Bestia non vuole proprio che mi annoi ” pensò ” Quando verrà a trovarmi lo ringrazierò “. Trascorse il pomeriggio sonando il cembalo, leggendo e passeggiando; verso le nove sedette di nuovo a tavola. Aveva appena spiegato il tovagliolo, che udì il solito forte rumore nelle stanze interne, e poco dopo la Bestia apparve.

La fanciulla fu agghiacciata di terrore, ma seppe dominarsi e salutò cortesemente. Il mostro le chiese con molta gentilezza:

– Permettimi che mi segga e rimanga qui con te, mentre ceni?

– Perché mi chiedi questo permesso? Sei tu il padrone, qui al castello – rispose Bella.

La Bestia scosse la testa:

– No. Qui sei tu sola la padrona, e se preferisci non vedermi io mi allontanerò subito.

Bella trovò la forza di rispondere gentilmente:

– Rimani, se ti fa piacere: non mi disturbi affatto.

Il mostro, visibilmente contento, sedette all’altro lato della tavola e chiese:

– Mi trovi molto brutto? Rispondi sinceramente.

Bella rabbrividì, temendo di provocare la collera di lui, ma rispose:

– Si, mi sembri brutto, ma credo che tu sia molto buono!

– Sono buono, infatti, ma stupido. Non ho molta intelligenza.

– Non credo che sia proprio così. Chi è stupido, non sa di esserlo, non è nemmeno sfiorato da questo dubbio! Tu, che assicuri di essere stupido, non lo sei.

– Ti ringrazio per le tue parole – replicò il mostro, guardandola con riconoscenza. – Se ne fossi capace, t risponderei con un complimento. Ma sono soltanto una bestia! Mangia, adesso. E cerca di non annoiarti, perché soffrirei troppo, se non ti sapessi contenta.

– Ti ringrazio sinceramente. Sei tanto affidabile e generoso che non mi sembri nemmeno più così brutto. E io preferisco un essere come te, brutto e buono, a un altro bellissimo ma cattivo.

– Allora … allora … vuoi sposarmi? – balbettò il mostro.

Bella, che stava rasserenandosi e quasi trovava gradevole la compagnia di lui, a quelle parole trasalì. ” Se rifiuto ” pensò ” mi divorerà …ma io non posso mentite “

– Sento per te tanta amicizia – rispose – ma non ti sposerò.

Il mostro volle sospirare, ma il suo sospiro fu un sibilo così forte che tutto il castello ne tremò. Poi si allontanò avvilito. Bella guardò a lungo verso la porta dalla quale il mostro era uscito e si rammaricò da averlo mortificato in quel modo. ” Peccato! ” pensava. ” che meraviglioso marito sarebbe, buono e gentile com’è, se il suo aspetto fosse un poco meno orribile! “.

Tuttavia le rimase in cuore un certo rimorso, e attese con ansia la sera successiva, per rivedere la Bestia. La bestia ritornò la sera dopo, e anche le sere seguenti, per tre mesi che furono molto belli e sereni per la ragazza. La sola cosa che l’angustiava un po’, era la domanda che la bestia ripeteva immancabilmente tutte le sere:

– Bella, vuoi sposarmi?

E Bella rispondeva ogni volta:

– Ti voglio bene, cara Bestia, ma non ti sposerò.

Allora la Bestia si allontanava avvilita.

Una sera Bella disse:

– Amico mio, ho veduto nello specchio che mio padre è ammalato. Le mie sorelle si sono sposate, i mie fratelli sono sotto le armi. Egli è solo. Lasciami tornare a casa a fargli un po’ di compagnia.

– La cosa che più m’importa al mondo è che tu sia contenta – rispose la Bestia. – Domattina ti sveglierai a casa tua. Ma ritornerai? Non dimenticare che, se mi lasci sol, io ne morirò.

– Ritornerò, cara Bestia – rispose Bella commossa. – Fra otto giorni sarò qui.

– Ebbene, prendi questo anello – aggiunse il mostro consegnando alla ragazza un anello d’oro ornato di un zaffiro. – Quando vorrai tornare, posalo sul tavolino, prima di coricarti. Ma ricorda che io ti aspetterò contando le ore e non saprei più vivere senza di te. – E aggiunse ancora una volta: – Vuoi sposarmi?

Udito il solito no si allontanò più avvilito e più curvo. E Bella rimase a guardarlo con grande rammarico in cuore. Andò a letto e si addormentò; e al mattino dopo aprendo gli occhi vide che era nella sua piccola fattoria di campagna, con le galline che chioccolavano sotto le finestre. Sonò il campanello e una domestica accorse:

– Signor padrone, signor padrone! – incominciò a urlare. – Venite, venite a vedere!

Il babbo si precipitò su per le scale e un attimo dopo irrompeva nella camera. Sulle prime rimase senza fiato, poi aprì le braccia e non finiva più di abbracciare e baciare la sua adorata figliola da lui creduta morta. Bella gli ricambiò gli abbracci, e lo assicurò che stava bene ed era contenta. Poi desiderò alzarsi, ma non aveva nemmeno un vestito, perché i suoi abiti erano rimasti al castello della Bestia.

– Come farò? – chiese ridendo.

Ma la domestica rispose:

– Nella stanza vicina c’è un baule che prima non c’era. E’ pieno fino all’orlo di vestiti e di gioielli degni di una regina.

” Cara Bestia! ” pensò Bella. ” Si è ricordata anche di questo! “. Poi disse ad alta voce:

– Dammi il vestito più semplice, perché regalerò gli altri alle mie sorelle.

Appena pronunciato queste parole che il baule sparì.

– La volontà della Bestia è chiara – commentò il babbo. – Vuole che soltanto tu, e non altri, indossi quegli abiti.

Appena ebbe detto questo il baule ricomparve, e Bella poté vestirsi davvero come una regina. Era più avvenente che mai, non solo per lo splendido abbigliamento, ma anche per la pace e la contentezza che brillavano nei suoi occhi e nel suo volto. Le sorella, avvertite dal babbo, accorsero subito.

Erano sposate tutt’è due, ma tutt’altro che felici. Il marito della maggiore era bellissimo, ma altrettanto vanitoso e superbo. Passava la giornata ad agghindarsi e pretendeva di essere continuamente riverito e ammirato sebbene non avesse più valore di un pavone.

Il marito dell’altra era ricco, ma anche avaro, ed economizzava ferocemente persino sul vitto e sugli abiti di sua moglie, la quale doveva andare in giro vestita di stracci consunti.

Quando le due ragazze videro Bella splendente di gioia, di ornamenti, di bellezza, cedettero di scoppiare per l’invidia e cominciarono a commentare tra loro:

– Perché nostra sorella deve essere tanto fortunata? Perché il mostro non l’ha divorata? – chiedeva una.

– Se non l’ ha divorata, la divorerà – rispondeva l’altra. – Bisogna trovare il modo di mettere contro di lei quella Bestia che le vuole troppo bene.

– Cerchiamo di trattenerla qui con noi oltre gli otto giorni – suggerì la prima. – Cos’ bisticceranno, e il mostro la mangerà.

Stabilirono questo, colmarono la sorella di attenzioni e di tenerezze, e Bella, non troppo abituata a vedersi così vezzeggiata, pianse di gioia.

– Sorellina nostra, resta con noi qualche altro giorno – piansero le due malvagie, stropicciandosi gli occhi, allo scadere della settimana.

Bella esitò. Il pensiero della buona Bestia non l’aveva abbandonata mai, e desiderava ardentemente di rivederla al più presto; ma davanti agli occhi rossi delle sorelle si commosse e promise di rimanere per altri otto giorni.

Tuttavia non era contenta; ricordava le parole del povero mostro che l’aspettava ansiosamente, e anche lei contava le ore che la dividevano da lui. Una notte fece un sogno: vide il mostro che, smagrito, consumato dal dolore, si trascinava penosamente sull’orlo di un ruscello in fondo al giardino, e ogni tanto invocava piangendo il suo nome.

Il castello, prima così luminoso, aveva tutte le finestre buie e i portoni chiusi e sembrava l’immagine della desolazione. Si svegliò all’improvviso con il cuore che le batteva forte.

” Sono stata un’ingrata” pensò. ” Ho ingannato il mio povero mostro che, invece, ha avuto tanta fiducia in me. Voglio tornare da lui, e sposarlo. Le mie sorelle sono infelici, anche se hanno per mariti uomini bellissimi e ricchissimi.

Ma io non ho saputo apprezzare il tesoro che Dio aveva messo sulla mia strada”. Si alzò e depose l’anello sul tavolino, poi tornò a letto e cadde in un sonno profondo. Al mattino si svegliò nel castello.

Fece una toletta accurata indossando l’abito più sontuoso e i gioielli più splendenti, poi aspettò con ansia che il giorno finisse e che il mostro venisse a trovarla come al solito. Ma con sua grande delusione, non lo vide comparire.

Scoccarono le nove e un quarto, poi le nove e mezzo, poi le dieci: ma non si udì il solito rumore nelle stanze interne; la Bestia era proprio scomparsa! Bella non toccò cibo, seguendo con ansia il cammino delle lancette dell’orologio.

Quando si persuase che il mostro, per quella sera, non sarebbe più venuto, non si sentì di aspettare fino alla sera successiva: voleva rivedere subito la sua cara Bestia! Si alzò da tavola e incominciò a percorrere il castello da cima a fondo chiamando ad alta voce; poi tendeva l’orecchio ansiosamente, ma non udiva alcun rumore.

Tutte le ricchezze delle sale sfarzose ora le parevano superflue e odiose; il castello era orribile senza il povero mostro, che forse era morto per colpa sua, credendosi dimenticato. A quel pensiero, scoppio in singhiozzi e incominciò a correre su e giù per le scale, attraversando una sala dopo l’altra e chiamando con quanta voce aveva; ma le rispondevano soltanto gli echi, sotto le volte silenziose e deserte. Infine si fermò ricordando il sogno.

Nel sogno la Bestia si trascinava verso la sponda del ruscello in fondo al giardino. Chissà che … veloce come il lampo scese lo scalone, attraversò i cortili, fu nel giardino. E in fondo, vicino al ruscello, abbandonato sotto un albero vide il mostro, che sembrava proprio morto. Bella cacciò un urlo:

– Bestia! Mia cara Bestia!

Si gettò in ginocchio a fianco del povero essere che aveva gli occhi chiusi e gli posò la mano sul cuore, per fortuna batteva ancora. Allora corse al ruscello, tuffò il fazzoletto nell’acqua fresca e ritornò in fretta; sollevò dolcemente la testa del mostro e incominciò a bagnargli la fronte e le tempie. Finalmente la Bestia socchiuse gli occhi e quando vide Bella, tentò di sorriderle.

– Bella, quanto mi hai fatto aspettare! – disse con n filo di voce. – Credevo che non saresti ritornata e non volevo più vivere. Mi uccideva il dolore di averti perduta per sempre: ma ora che ti vedo posso morire contento.

Bella scoppiò in singhiozzi.

– No , cara Bestia, non morire, altrimenti morirò anch’io! Non saprei vivere senza di te – gridò fra le lacrime. – Come farò, se tu mi abbandoni? Come potrò vivere, senza la mia cara Bestia? Guarisci, guarisci in fretta perché io voglio sposarti, e rimanere con te per sempre!

Appena pronunciato queste parole che il castello buoi e squallido si illuminò di una miriade di stelline d’oro, e si udì una musica trionfale. Bella si guardò intorno sbigottita, ma subito tornò con il pensiero alla sua cara Bestia morente, tese il fazzoletto umido d’acqua per rinfrescare la fronte, ma … la Bestia era scomparsa!

Sdraiato sotto l’albero, accanto al ruscello, c’era invece un bellissimo principe sfarzosamente vestito, dai lineamenti perfetti come quelli di una statua, ma dagli occhi buoni e pieni d’affetto come quelli del mostro del castello incantato. Egli mise un ginocchio a terra, prese affettuosamente la mano a Bella e gliela baciò.

– Dov’è, dov’è la mia cara Bestia? – chiese la fanciulla tutta turbata; e si guardò intorno cercando ansiosamente l’amato mostro che sembrava scomparso.

– La Bestia sono io – disse il giovane principe con la voce che aveva ancora l’antico timbro, ma che era diventata più melodiosa, e aggiunse tristemente: – Una volta ero un principe buono, bello, ricco e felice, ma una strega invidiosa mi tolse tutto, meno la bontà, e mi ha trasformato nell’orribile mostro che tu hai conosciuto.

Sarei rimasto così per sempre, se non avessi incontrato una creatura di animo tanto elevato da apprezzare nonostante la mia bruttezza e la mia apparente stupidità. Se questa fanciulla avesse acconsentito a sposarmi, io sarei stato liberato dall’incantesimo; perciò ogni sera ti chiedevo se mi avessi voluto per marito, e non mi disperavo per il tuo diniego, confidando sempre che tu cambiassi idea.

Quando te ne sei andata, ho creduto che non tornassi più, e ho visto crollare le mie speranze, tanto più che ti amavo appassionatamente. Ma eccoti qui di nuovo. Mi vuoi bene, e finalmente accetti di essere mia moglie. Sarai anche regina nel mio regno.

Bella, udendo la voce tanto amata e vedendo la bontà che sfavillava negli occhi del suo bellissimo principe, ricominciò a piangere, ma questa volta di gioia. I due giovani si presero per mano e ritornarono verso il castello fra la pioggia di stelline multicolori che i fuochi artificiali facevano brillare nel cielo.

E nella grande sala illuminata trovarono riunita tutta la famiglia: il padre di Bella, le due sorelle e i loro mariti. C’era anche una bellissima signora con un abito azzurro tempestato di stelle d’argento.

– Una volta, in sogno, ti ho promesso che la tua bontà sarebbe stata ricompensata – disse la signora sorridendo a Bella. – Sarai una potente regina a fianco di un potente re che alla bellezza e all’intelligenza unisce anche il cuore d’oro che tu hai saputo apprezzare. In quanto a voi, – continuò rivolta alle sorelle – che avete invece il cuore duro come la pietra, diventerete davvero di pietra e, trasformate in statue, assisterete alla felicità di vostra sorella fino al giorno in cui vi pentirete della vostra cattiveria.

Immediatamente le due sorelle divennero due statue; poco dopo la fata diede un colpo della sua bacchetta magica e tutti furono trasportati nel regno del principe. Il principe sposò Bella, e i due vissero per lunghi anni contenti.

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